Il berkelio, un elemento chimico pesante e altamente radioattivo, si è guadagnato una reputazione di ribelle sin dal suo debutto nel 1949, quando fu sintetizzato per la prima volta in un laboratorio degli Stati Uniti subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Questo elemento, che occupa il numero 97 nella tavola periodica, ha sempre sfidato le aspettative della chimica quantistica, assumendo una carica positiva extra che i suoi “parenti” chimici non sembrano in grado di mantenere.
Oggi, grazie a un team di ricercatori del Lawrence Berkeley National Laboratory in California, l’indomabile berkelio è stato finalmente costretto a collaborare. Gli scienziati sono riusciti a inserirlo all’interno di una molecola organometallica, aprendo una nuova finestra sullo studio di questo enigmatico elemento. Il laboratorio in cui è avvenuta questa impresa è lo stesso dove il berkelio venne scoperto oltre settant’anni fa.
Un esperimento raro e costoso con un elemento difficile da gestire
L’impresa ha richiesto appena 0,3 milligrammi di berkelio-249, un isotopo tanto prezioso quanto pericoloso. Per dare un’idea del valore di questa sostanza, basti pensare che un grammo di berkelio può arrivare a costare la cifra astronomica di 27 milioni di dollari. La produzione di berkelio-249 è un procedimento estremamente complesso, e il contenimento sicuro di questo metallo radioattivo rappresenta una sfida che solo pochi laboratori nel mondo sono in grado di affrontare.
L’esperimento ha portato alla creazione di un composto organometallico noto come berkelocene, una struttura che imita quella del più noto ferrocene, in cui un atomo di ferro si trova intrappolato tra due anelli di carbonio. In questo caso, tuttavia, al centro della molecola si trova lo ione Bk(IV), stabilizzato tra due leganti ciclocottatetraenici sostituiti. Si tratta di una configurazione altamente reattiva, tanto che l’esposizione all’aria la distruggerebbe quasi istantaneamente.
Un legame tra berkelio e carbonio mai osservato prima
Secondo quanto dichiarato dagli scienziati del Berkeley Lab, questa è la prima volta che viene confermata la formazione di un legame chimico diretto tra il berkelio e il carbonio. La scoperta rappresenta un passo fondamentale per capire in che modo gli attinidi, il gruppo di elementi a cui il berkelio appartiene, si comportano rispetto ai loro omologhi nella tavola periodica, in particolare rispetto ai lantanidi.
L’analisi spettroscopica della nuova molecola ha rivelato un comportamento sorprendente: mentre la chimica classica suggeriva che il berkelio dovesse agire come il terbio, esso si è mostrato invece più stabile in una forma di carica +4. Questo indizio suggerisce che la forza che tiene insieme la molecola non è rappresentata da solidi legami covalenti, bensì da più deboli, ma efficaci, interazioni ioniche, simili all’attrazione tra due magneti.
Il lungo viaggio degli attinidi nella chimica organometallica
Il successo di questa sintesi segna un nuovo traguardo nel percorso di studio degli attinidi, un gruppo di 15 elementi radioattivi che occupano l’estremità inferiore della tavola periodica. Fin dagli anni ’60, i chimici hanno cercato di legare questi elementi a strutture organometalliche per comprenderne meglio le proprietà.
Il primo a essere “incatenato” fu l’uranio, che diede origine all’uranocene, la cui struttura risultava essere termodinamicamente stabile. Negli anni successivi furono creati il torocene dal torio, il protattinocene dal protoattinio, il neptunocene dal nettunio e il plutonocene dal plutonio. Più recentemente, i chimici hanno incluso nella lista anche elementi più rari come l’americio e il californio.
Il berkelio, tuttavia, si è dimostrato un avversario difficile. Solo ora, grazie a un’inedita combinazione di chimica organometallica e tecniche di cristallografia a raggi X, è stato possibile ottenere un complesso stabile e descrivere la sua struttura elettronica con precisione.
Una speranza per la gestione dei rifiuti nucleari
I ricercatori ritengono che lo studio dei legami e della chimica di coordinazione degli attinidi pesanti possa fornire strumenti essenziali per affrontare le sfide connesse allo stoccaggio dei rifiuti nucleari. Capire come questi elementi si comportano a livello molecolare potrebbe facilitare la gestione a lungo termine dei materiali radioattivi e contribuire a sviluppare metodi più sicuri per il loro contenimento e smaltimento.
Questi risultati sono stati resi pubblici tramite una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Science, confermando ancora una volta il ruolo di primo piano che il Lawrence Berkeley National Laboratory svolge nello studio degli elementi chimici più estremi della tavola periodica.