Un nuovo inizio per Jon e gli altri volontari
Dopo un intervento al cervello, Jon e gli altri partecipanti allo studio hanno dovuto affrontare un compito impegnativo: riabilitare la mente e imparare nuovamente a convivere con le emozioni. La stimolazione cerebrale profonda (DBS) ha rappresentato una svolta nel trattamento della depressione maggiore resistente, ma il recupero non è stato solo fisico. Il percorso si è rivelato più complesso del previsto, perché dopo anni trascorsi in una condizione di apatia e sofferenza, il ritorno a una gamma completa di emozioni ha richiesto un processo di adattamento.
Jon ha raccontato il suo cambiamento drastico: da una vita segnata da pensieri suicidi e disperazione, a un risveglio improvviso nella notte dell’attivazione del dispositivo. “Durante la notte, sono guarito. Sono in remissione dalla depressione dal momento in cui l’hanno attivata”, ha detto. Ma questo cambiamento, seppur positivo, ha sollevato nuove sfide.
Il compromesso della stimolazione cerebrale
Vivere con elettrodi impiantati nel cervello, fili nel collo e batterie nel petto è una condizione permanente per chi si sottopone alla DBS. Il paziente 001, uno dei partecipanti allo studio, ha espresso una preoccupazione apparentemente banale ma significativa: l’ingombro fisico dei dispositivi. “Vorrei solo che le batterie nel petto non fossero così visibili”, ha ammesso, parlando del disagio estetico e della sensazione di avere un corpo modificato.
Anche Amanda ha raccontato una difficoltà simile: “Ogni volta che tocco accidentalmente il filo nel mio collo, mi viene da pensare ‘Ew, non mi piace.'” La DBS porta con sé una sensazione di estraneità verso il proprio corpo, amplificata da aspetti pratici come la necessità di ricaricare le batterie attraverso un caricatore wireless. Il monitoraggio costante da parte degli scienziati, che tracciano i dati di ogni paziente, aggiunge un ulteriore elemento di vulnerabilità.
La paura della ricaduta e la riabilitazione emotiva
Dopo l’intervento, Jon si è sentito invincibile. “Non sono più malato. Sto benissimo”, pensava. Tuttavia, dopo circa sei settimane, ha iniziato a percepire i segnali di una possibile ricaduta: apatia, difficoltà a uscire di casa, sonno eccessivo, fame incontrollata. Il timore che il suo dispositivo fosse stato spento ha scatenato il panico. “Mi sento strano. È stato disattivato? Sta funzionando? Datemi un avviso”, ha scritto in un’e-mail allo psichiatra del Mount Sinai.
La risposta dei medici è stata chiara: il dispositivo funzionava perfettamente. La vera sfida, quindi, non era la DBS, ma riapprendere a gestire le emozioni normali senza vederle come segnali di un ritorno alla depressione. La paura della tristezza era diventata il suo nuovo nemico. “Ho dovuto imparare a convivere con l’essere triste senza cadere nel panico”, ha spiegato.
La psicologa Shannon O’Neill, che segue i pazienti con DBS, ha sottolineato quanto sia fondamentale questa fase del recupero. “Le persone devono imparare a distinguere la tristezza comune da una vera ricaduta depressiva. Hanno vissuto per anni in uno stato costante di sofferenza e ora devono tollerare l’intero spettro delle emozioni”.
Un futuro da scrivere
Molti pazienti, dopo la DBS, si trovano di fronte a una domanda che non si erano mai posti: cosa fare della propria vita? Amanda, che prima vedeva la morte come l’unica soluzione, ha rappresentato il suo percorso in un disegno: un libro aperto con una pagina bianca intitolata “Prossimo capitolo”, dove per la prima volta si trova a pensare al futuro.
La neurologa Helen Mayberg ha osservato che i benefici della DBS sono spesso duraturi, con studi che dimostrano miglioramenti significativi anche otto anni dopo l’intervento. Ma la vera trasformazione avviene quando i pazienti smettono di concentrarsi sulla pura sopravvivenza e iniziano a pianificare la loro esistenza.
Oggi, Jon ha ancora paura della ricaduta. Continua a scrivere ai medici per assicurarsi che il dispositivo sia attivo, e il pensiero di un possibile guasto lo terrorizza. Tuttavia, riconosce che la DBS non gli ha dato una felicità artificiale, ma la libertà di vivere senza il peso costante della depressione. “Non mi ha tolto le emozioni. Ora devo imparare a gestirle”, afferma.
La stimolazione cerebrale profonda non è una cura magica, ma per molti rappresenta la possibilità di ricominciare a vivere davvero.