Il caso George Franklin e la testimonianza della figlia Eileen
Nel 1990, George Franklin fu condannato all’ergastolo per l’omicidio della migliore amica della figlia Eileen, sulla base di una testimonianza scioccante. Eileen, all’epoca ventottenne, raccontò di aver ricordato solo di recente un episodio accaduto vent’anni prima, quando aveva otto anni: il padre avrebbe prima stuprato e poi ucciso la sua amica, colpendola con una pietra.
Secondo l’accusa, quel ricordo era rimasto represso per due decenni, per poi riemergere con dettagli vividi. Ma è possibile dimenticare un evento tanto traumatico e poi ricordarlo con precisione anni dopo?
L’origine freudiana della repressione
Il concetto di memoria repressa ha radici nella psicoanalisi di Sigmund Freud, che nel XIX secolo lo definì un meccanismo di difesa inconscio. L’idea era che la mente potesse seppellire esperienze traumatiche per proteggerci, lasciandole nascoste ma intatte nell’inconscio. Secondo questa teoria, solo in un contesto psicologicamente sicuro, questi ricordi possono riemergere, spesso accompagnati da sintomi fisici e psicologici.
L’esplosione della terapia del recupero della memoria negli anni ’80
Durante gli anni Ottanta, il concetto di repressione ritrovò vigore grazie all’attenzione crescente verso gli abusi sessuali su minori. I terapeuti dell’epoca suggerivano che sintomi come ansia, depressione o disturbi alimentari potessero essere segnali di abusi dimenticati, da riportare alla luce tramite tecniche specifiche.
Ipnosi, immaginazione guidata, bodywork, domande suggestive e sessioni di gruppo erano solo alcune delle strategie usate. Molti pazienti cominciarono a “ricordare” episodi di abuso sessuale infantile, anche in assenza di prove fisiche o testimonianze indipendenti.
La scienza contesta l’esistenza dei ricordi repressi
Secondo i ricercatori della memoria, non ci sono prove scientifiche solide a supporto della repressione dei ricordi. Gli studi dimostrano che gli eventi traumatici, come guerre, disastri naturali o torture, vengono spesso ricordati troppo bene, come dimostrato nei casi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). I flashback ricorrenti e i ricordi intrusivi sono infatti sintomi tipici del PTSD, e non della rimozione.
Inoltre, non ricordare un trauma non equivale automaticamente a memoria repressa. Ci sono molteplici spiegazioni per la dimenticanza: deterioramento naturale della memoria, soppressione volontaria, traumi cerebrali, uso di sostanze o mancata codifica del ricordo a causa dello stress estremo.
Falsi ricordi: un pericolo concreto
Numerosi esperimenti hanno dimostrato che, attraverso tecniche suggestive, è possibile piantare ricordi falsi nei partecipanti. In uno studio, quasi un terzo dei soggetti ha sviluppato falsi ricordi dettagliati di eventi mai accaduti, come soffocamenti, attacchi di animali o ospedalizzazioni gravi.
Questi risultati hanno messo in dubbio l’affidabilità dei ricordi recuperati in terapia, soprattutto quando rappresentano l’unica prova in casi giudiziari. Un terapeuta, anche senza volerlo, può contribuire alla creazione di false memorie, specialmente in pazienti fragili e suggestionabili.
La persistente fiducia popolare nella repressione
Nonostante l’assenza di consenso scientifico, l’idea di ricordi repressi resta profondamente radicata nel pubblico e in molte figure professionali della salute mentale. Molti credono ancora che esperienze traumatiche infantili possano nascondersi nell’inconscio e riemergere improvvisamente.
A rafforzare questa convinzione, in diversi stati americani e paesi europei sono stati modificati i termini di prescrizione per crimini sessuali, permettendo l’uso di testimonianze basate su ricordi recuperati dopo decenni.
Ma con la facilità con cui si possono creare falsi ricordi, questi cambiamenti potrebbero avere effetti devastanti: accuse infondate, processi basati su memorie distorte e condanne ingiuste rischiano di diventare sempre più frequenti, se la memoria viene considerata prova inconfutabile.