Nelle minuscole comunità batteriche, accade qualcosa che ricorda un antico gesto altruista: alcuni ceppi di Escherichia coli sono in grado di autodissolversi dopo la morte, offrendo un’ultima risorsa ai propri “parenti” cellulari ancora vivi. Questo affascinante meccanismo, osservato dagli scienziati dell’Università di Durham nel Regno Unito, rivela un comportamento cooperativo sorprendente in un mondo spesso considerato semplice e privo di intenzioni.
Secondo i ricercatori britannici, le cellule batteriche defunte mettono a disposizione dei vicini i propri resti, ricchi di nutrienti, grazie all’azione di un enzima specifico: la proteasi Lon. Questo enzima continua ad agire anche dopo la morte cellulare, scomponendo le proteine residue in peptidi semplici, che diventano così un nutrimento immediatamente disponibile per le cellule ancora in vita.
La proteasi Lon: un motore biochimico anche dopo la morte
L’enzima Lon non è una novità per la scienza: da tempo si sapeva che è responsabile della degradazione controllata delle proteine nelle cellule vive di Escherichia coli. Tuttavia, ciò che ha stupito il team dell’Università di Durham è la persistenza della sua attività dopo la morte cellulare. Questo fenomeno offre un beneficio collettivo, favorendo la sopravvivenza della colonia attraverso un meccanismo di riciclaggio dei nutrienti insospettato fino a oggi.
Gli esperimenti condotti dai biologi molecolari hanno coinvolto campioni geneticamente modificati privi del gene che codifica la proteasi Lon. In queste varianti, il processo di liberazione dei nutrienti non avviene con la stessa efficacia, confermando il ruolo centrale dell’enzima nella gestione dei resti cellulari post-mortem. Nonostante ciò, anche i batteri privi di Lon sono in grado di beneficiare dei nutrienti rilasciati dagli altri membri della comunità, pur non contribuendo attivamente al processo.
Una forma primordiale di altruismo microbico
Il biochimico Martin Cann, che ha guidato la ricerca, descrive questa scoperta come un vero e proprio ripensamento del concetto di morte biologica. Nei microrganismi come Escherichia coli, la morte cellulare non rappresenta la fine dei processi vitali, bensì l’inizio di una nuova fase di supporto collettivo. Secondo Cann, questa strategia potrebbe essere interpretata come una forma di cooperazione evolutiva che rafforza la resilienza della popolazione batterica.
L’analogia con il comportamento umano è inevitabile: sebbene i batteri non possano redigere un testamento o donare una casa ai discendenti, sono comunque programmati per lasciare un’eredità materiale, fornendo risorse vitali che garantiscono la sopravvivenza del gruppo.
Le implicazioni ecologiche e biotecnologiche del riciclo post-mortem
Gli scienziati ipotizzano che questo fenomeno non sia limitato a Escherichia coli, ma possa essere comune ad altri microrganismi. Studi precedenti su alghe verdi e lettiere di foglie indicano che molti organismi unicellulari e pluricellulari potrebbero essersi evoluti per rilasciare nutrienti nel proprio ambiente circostante, a beneficio dell’ecosistema locale e delle generazioni future.
Secondo Cann e il suo team, una comprensione più profonda di questi processi biochimici postumi potrebbe in futuro consentire di controllare meglio la proliferazione batterica, sia per limitare malattie infettive, sia per favorire applicazioni biotecnologiche, come la produzione di biomassa o il biorisanamento ambientale.
La vita oltre la morte: un nuovo paradigma per la biologia cellulare
“Normalmente pensiamo alla morte biologica come a un momento di disgregazione passiva, in cui l’organismo defunto diventa una semplice risorsa per altri organismi”, spiega Martin Cann. “Ciò che questo studio ha rivelato è che la morte non rappresenta la fine dei processi programmati di un essere vivente. Al contrario, certi meccanismi biochimici continuano a operare, assicurando un vantaggio evolutivo per i membri della comunità batterica”.
La ricerca, pubblicata su Nature Communications, apre nuovi orizzonti nella comprensione dei meccanismi di cooperazione microbica, dimostrando che perfino le cellule più semplici, come quelle di Escherichia coli, possono mettere in atto strategie complesse per garantire la continuità e il successo della propria specie.