Un recente studio pubblicato il 21 marzo su Science propone un’ipotesi sorprendente: le foche grigie (Halichoerus grypus) potrebbero essere dotate di un senso fisiologico nascosto, in grado di rilevare i propri livelli di ossigeno nel sangue. Questa capacità permetterebbe a questi mammiferi marini di regolare con precisione la durata delle loro immersioni subacquee, evitando il rischio di annegamento durante le discese più profonde, che possono protrarsi fino a sessanta minuti.
Un meccanismo di sopravvivenza che sfida le regole dei mammiferi terrestri
I mammiferi hanno un fabbisogno costante di ossigeno per sopravvivere, ma nella maggior parte delle specie terrestri non esistono sensori diretti in grado di percepire la concentrazione di questo gas nel flusso sanguigno. Generalmente, gli animali (compreso l’uomo) si affidano all’aumento del diossido di carbonio (CO₂) come segnale di allarme. Negli esseri umani, ad esempio, l’accumulo di CO₂ attiva sensori specializzati situati nelle arterie carotidi, provocando dispnea, fame d’aria e, nei casi estremi, perdita di conoscenza.
Le foche grigie, invece, conducono gran parte della loro esistenza sott’acqua e non possono permettersi che i loro livelli di ossigeno calino fino a raggiungere condizioni critiche. Secondo Chris McKnight, ecologo presso l’Università di St. Andrews in Scozia, la selezione naturale avrebbe esercitato una pressione evolutiva significativa su questi animali, portandoli a sviluppare un adattamento fondamentale per la loro sopravvivenza in ambiente marino.
L’esperimento condotto in Scozia: immersioni controllate per comprendere il fenomeno
Per investigare questa ipotesi, McKnight e il suo team hanno prelevato sei giovani esemplari di foca grigia da una popolazione selvatica che vive nelle acque scozzesi. Gli studiosi hanno allestito un ambiente sperimentale controllato, composto da una piscina lunga sessanta metri, dove gli animali nuotavano tra una stazione di alimentazione subacquea e una camera di respirazione dotata di atmosfere artificiali.
Le quattro miscele gassose impiegate variavano nella percentuale di ossigeno e diossido di carbonio. Una imitava l’aria atmosferica terrestre, composta dal 21% di ossigeno e dallo 0,04% di CO₂. Le altre tre miscele comprendevano una concentrazione di ossigeno doppia rispetto all’aria, una concentrazione dimezzata e una miscela con una normale quantità di ossigeno ma con livelli di anidride carbonica aumentati di ben 200 volte rispetto alle condizioni naturali.
In totale, sono state documentate 510 immersioni individuali, tutte monitorate attentamente dal team di ricerca.
Le foche modulano la durata dell’immersione in base all’ossigeno inspirato
I risultati dell’esperimento hanno evidenziato che, in media, le foche grigie rimanevano sott’acqua circa quattro minuti dopo aver respirato l’aria ambiente standard. Tuttavia, quando l’aria inalata conteneva una maggiore concentrazione di ossigeno, le immersioni si prolungavano in maniera proporzionale. Al contrario, una riduzione dell’ossigeno disponibile portava le foche a ridurre la durata della permanenza in apnea.
Sorprendentemente, l’aumento del diossido di carbonio non sembrava influenzare in alcun modo il comportamento delle foche, suggerendo che questi animali abbiano sviluppato una risposta fisiologica attenuata a questo gas. Secondo McKnight, ciò potrebbe dipendere dal fatto che il CO₂ si accumula inevitabilmente nel corpo durante le immersioni ripetute, e una sensibilità eccessiva porterebbe conseguenze svantaggiose.
Un sistema sensoriale evoluto per il monitoraggio del sangue
Lo studio scozzese ipotizza che le foche grigie utilizzino lo stesso apparato biologico che, negli esseri umani, consente di monitorare i livelli di diossido di carbonio attraverso i recettori nelle arterie carotidi. Tuttavia, il modo in cui il cervello delle foche elabora le informazioni sul contenuto di ossigeno nel sangue potrebbe essere profondamente diverso.
Questa sofisticata capacità di autoregolazione permetterebbe a questi mammiferi marini di prevenire il rischio di ipossia e di adattarsi alle condizioni estreme degli ambienti oceanici, mantenendo un perfetto equilibrio tra le esigenze di sopravvivenza e quelle di alimentazione nelle profondità marine.