L’Alzheimer ad esordio precoce rappresenta una delle forme più aggressive e difficili da trattare della malattia neurodegenerativa. Colpisce circa il 5-10% dei pazienti totali, manifestandosi prima dei 65 anni e avanzando con rapidità, spesso proprio quando le persone sono ancora nel pieno delle loro vite professionali e familiari. In questo contesto, un farmaco sperimentale, noto come gantenerumab, riaccende l’interesse della comunità scientifica grazie a risultati promettenti emersi da uno studio clinico appena concluso.
In questa nuova fase di sperimentazione, il gantenerumab ha mostrato la capacità di ridurre in modo significativo le placche di beta amiloide nel cervello, uno dei marcatori biologici più distintivi dell’Alzheimer. Queste placche proteiche, presenti in eccesso nelle persone affette, ostacolano la normale funzione neuronale e sono state a lungo indicate come una delle cause principali del deterioramento cognitivo.
Lo studio clinico, disegnato come randomizzato e controllato con placebo, ha coinvolto 73 partecipanti portatori di rare mutazioni genetiche ereditarie note per provocare l’Alzheimer in età giovane. Di questi, un sottogruppo di 22 pazienti asintomatici, trattati per una media di otto anni, ha visto ridursi il rischio di sviluppare sintomi cognitivi dal 100% al 50%. Le scansioni cerebrali hanno confermato la diminuzione delle placche di amiloide rispetto al gruppo placebo.
Il gantenerumab è un anticorpo monoclonale, progettato per legarsi alla beta amiloide e stimolare il sistema immunitario – in particolare le cellule microgliali, i “guardiani” del cervello – a riconoscere ed eliminare questi accumuli dannosi. Questo approccio rafforza i meccanismi naturali di difesa del cervello, solitamente compromessi nei soggetti con Alzheimer.
Una caratteristica rilevante del gantenerumab è la sua capacità di attraversare la barriera emato-encefalica, ovvero quel filtro biologico che impedisce a molte sostanze di raggiungere il tessuto cerebrale. Questo lo rende più efficace rispetto ad altre terapie che non riescono ad agire direttamente nel punto in cui si sviluppano le placche.
Nonostante l’entusiasmo, il trattamento non è privo di effetti collaterali importanti. Circa il 53% dei partecipanti ha mostrato anomalie cerebrali nelle immagini MRI, tra cui gonfiore cerebrale, microemorragie e depositi di ferro dovuti a piccoli sanguinamenti. Anche se non si sono verificati casi di emorragie cerebrali gravi né decessi legati al farmaco, questi segnali richiedono una sorveglianza continua e approfondita tramite diagnostica per immagini.
Un’altra criticità emersa riguarda l’entità dei benefici cognitivi. La rimozione delle placche non si è ancora tradotta in miglioramenti consistenti delle funzioni mnemoniche e cognitive, lasciando aperta la questione sull’effettivo impatto clinico del trattamento. Inoltre, il gantenerumab risulta essere costoso da produrre, con un possibile costo annuo per paziente vicino ai 25.000 euro, se paragonato a terapie simili come il donanemab.
Lo studio, purtroppo interrotto prima della fine a causa del ritiro del produttore, si è focalizzato solo su una variante genetica rara della malattia. Occorreranno ulteriori ricerche per verificare la validità dei risultati su una popolazione più ampia, che includa forme più comuni di demenza.
I nuovi dati, tuttavia, ravvivano il dibattito sull’ipotesi dell’amiloide, secondo cui l’accumulo di questa proteina sarebbe il principale motore della patologia. I recenti progressi con farmaci come lecanemab, donanemab e ora gantenerumab, sostengono questa linea di ricerca.
Ciò che emerge con forza è l’importanza cruciale della diagnosi precoce. Le terapie anti-amiloide sembrano più efficaci nelle fasi iniziali della malattia, prima che il danno cerebrale sia irreversibile. L’uso di biomarcatori avanzati, come analisi del sangue e tecniche di imaging cerebrale, può permettere l’identificazione di soggetti a rischio con molto anticipo.
Sebbene il gantenerumab sia stato ritirato nel 2022 per risultati clinici non soddisfacenti, questi nuovi approfondimenti suggeriscono un possibile ritorno alla ricerca sul farmaco. Nel panorama della lotta contro l’Alzheimer, ogni avanzamento rappresenta un passo fondamentale per comprendere meglio la malattia e sviluppare trattamenti più efficaci.