Pulire una casa avvolta dal fumo di un incendio è una sfida complessa, resa ancora più ardua dall’assenza di linee guida ufficiali su cosa fare quando le fiamme si spengono ma le tossine restano. Dopo gli incendi di Los Angeles di Gennaio, il problema si è reso evidente quando residenti evacuati hanno chiesto se fosse sufficiente arieggiare, lavare o buttare via i materassi esposti al fumo. Secondo Elliott Gall, ingegnere della Portland State University, rispondere senza informazioni dettagliate sull’esposizione è praticamente impossibile.
Le tossine del fumo possono legarsi saldamente a superfici domestiche come vetri, tessuti e cartongesso, restando attive per settimane o mesi, rilasciando composti organici volatili (VOC) anche quando non si sente più odore di fumo. Lo confermano le ricerche della Colorado State University, dove Delphine Farmer ha monitorato per sei settimane una casa riempita artificialmente di fumo: le superfici continuavano a emettere sostanze chimiche anche a distanza di tempo, specialmente quelle meno volatili.
Il laboratorio di Gall ha invece dimostrato che i PAH cancerogeni, applicati su materiali domestici comuni, persistono per circa 40 giorni, mentre nella polvere di abitazioni colpite dall’incendio di Marshall in Colorado, sono rimasti presenti anche sei mesi dopo. Interventi come i purificatori d’aria sembrano avere solo effetti temporanei, poiché le superfici continuano a rilasciare gas una volta interrotta la filtrazione.
La pulizia, tuttavia, può fare una grande differenza. Le ricerche indicano che un insieme di azioni semplici ma costanti, come aspirare, spolverare, lavare con panni umidi e sapone, è estremamente efficace nel ridurre la quantità di VOC e PAH. Anche i tessuti contaminati possono essere lavati e asciugati con buoni risultati: nel caso delle lenzuola di cotone, è stato eliminato quasi il 50% dei contaminanti.
È fondamentale però evitare pratiche sbagliate, come spazzare a secco, che rischiano di rimettere in circolo le tossine nell’aria. Anche se non è ancora chiaro quando e quanto frequentemente sia necessario pulire, la regola è una: mantenere la casa il più pulita possibile.
In ambienti interni, la quantità di superficie esposta al fumo è molto maggiore rispetto all’esterno, dove agenti naturali come vento e pioggia aiutano a disperdere gli inquinanti. E se all’esterno il fumo si accumula nelle polveri e nella “sporcizia urbana”, in casa può penetrare in ogni angolo, compresi gli arredi porosi, continuando a essere una fonte invisibile ma attiva di contaminazione.
La combustione di materiali sintetici, come quelli presenti nelle oltre 12.000 strutture bruciate negli incendi di Los Angeles, rilascia piombo, arsenico, mercurio e altre sostanze altamente tossiche. Eppure, non sappiamo ancora con certezza come basse dosi prolungate di questi composti influenzino la salute nel tempo.
Uno studio epidemiologico condotto da Colleen Reid ha messo in evidenza una correlazione tra esposizione al fumo e mal di testa, irritazione alla gola, starnuti e alterazioni del gusto. In particolare, i sintomi aumentano nelle case che continuano a odorare di fumo per giorni, indicando che la contaminazione non si esaurisce con la scomparsa dell’odore.
La comunità scientifica sta quindi cercando di colmare il vuoto normativo e conoscitivo su come intervenire efficacemente dopo un incendio. Per ora, l’approccio migliore rimane una pulizia metodica e consapevole, scegliendo con attenzione le tecniche e i prodotti utilizzati.
In attesa di protocolli ufficiali da parte dell’EPA, l’esperienza degli incendi in California rappresenta un’occasione fondamentale per continuare a investigare, perché – come sottolinea Amara Holder, ingegnere ambientale – “questo disastro è ormai ciclico e serve un piano per affrontarlo al meglio.”