Un’immagine scolpita nell’immaginario collettivo
Quando si evocano i manicomi, la mente corre subito a quelle strutture monumentali, spesso di stile gotico, circondate da alte recinzioni e dominate da sbarre alle finestre. La fantasia comune li descrive come luoghi dove pazienti in camicia di forza languivano sotto l’occhio severo di inservienti vestiti di bianco, mentre nei lunghi corridoi sterili riecheggiavano urla di disperazione. Tuttavia, questa rappresentazione, seppur radicata in eventi reali, non rende giustizia a una realtà ben più complessa e sfaccettata.
La storia dei manicomi non è solo un racconto di sofferenza e abusi, ma anche di tentativi pionieristici di comprendere e curare le malattie mentali. Ripercorrerne le tappe significa attraversare secoli di ignoranza, sperimentazioni discutibili, ma anche progressi scientifici e speranze infrante.
Prima dei manicomi: tra superstizione e teoria degli umori
Prima dell’avvento delle istituzioni psichiatriche moderne, il concetto di malattia mentale si intrecciava profondamente con credenze di origine religiosa e teorie mediche arcaiche. Per oltre duemila anni, in Europa e nel mondo occidentale, i disturbi psichici erano spesso attribuiti a squilibri fisici riconducibili alla teoria degli umori: sangue, flemma, bile gialla e bile nera erano considerati i quattro fluidi vitali che regolavano salute e personalità.
Ad esempio, la melanconia, termine che oggi potrebbe ricordare la depressione, veniva associata a un eccesso di bile nera, mentre la flemma in sovrabbondanza era ritenuta causa di apatia e letargia. La terapia consisteva spesso in diete rigorose, salassi, lassativi e emetici, nel tentativo di purificare il corpo.
Chi soffriva di disturbi psichici gravi non trovava, però, strutture dedicate. Le famiglie si facevano carico della cura dei malati, mentre i più poveri finivano spesso in strutture caritatevoli, prigioni o case di lavoro. Nei territori cattolici, alcuni cercavano guarigioni miracolose presso santuari come quello di Altötting, in Baviera.
La nascita dei primi ricoveri e l’ombra della reclusione
Nei secoli XVII e XVIII, le prime strutture di contenimento sorsero con lo scopo di custodire chi era ritenuto pericoloso per sé e per gli altri. Questi istituti, spesso prigioni camuffate, non avevano alcuna funzione terapeutica. Gli ospiti venivano incatenati, contenuti fisicamente e sorvegliati da personale privo di formazione medica.
Il Bedlam Hospital di Londra, noto anche come Bethlem Royal Hospital, divenne il simbolo degli abusi e della disumanità. Le cronache e le rappresentazioni artistiche, come quella del pittore William Hogarth, dipinsero il manicomio londinese come un girone infernale, ma le ricerche storiche recenti hanno rivelato che non tutti gli ospedali psichiatrici erano così.
In Germania, ad esempio, il Juliusspital di Würzburg offriva condizioni di vita accettabili, e molti internati e famiglie preferivano quelle istituzioni all’abbandono o alla miseria domestica.
Il secolo dell’Illuminismo e la rivoluzione del trattamento morale
Con il XVIII secolo e il Secolo dei Lumi, le concezioni sulla salute mentale iniziarono a cambiare. Gli scienziati e i medici iniziarono a considerare la mente e il sistema nervoso come centrali nello studio della follia. Sorsero così i primi specialisti della psiche, i cosiddetti “dottori dei pazzi”.
Il 1796 segna una svolta con l’apertura dello York Retreat in Inghilterra, fondato dal quacchero William Tuke. Qui venne introdotto il trattamento morale, basato su rispetto, calma e routine quotidiana. Le camicie di forza e le catene lasciarono il posto a conversazioni, giardinaggio e attività manuali. Questo approccio ispirò la costruzione di manicomi vittoriani in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, con l’obiettivo di offrire cura e dignità anche ai meno abbienti.
Sovraffollamento e ritorno agli orrori
Nonostante le buone intenzioni, i manicomi dell’Ottocento divennero rapidamente luoghi di reclusione di massa. L’aumento esponenziale dei pazienti, unito a fondi insufficienti e personale impreparato, trasformò molte strutture in lager della mente. I malati cronici finivano per trascorrere l’intera vita tra quelle mura, e la disumanizzazione tornò ad essere la norma.
Il Novecento e le terapie invasive: insulina, elettroshock e lobotomie
Con l’inizio del XX secolo, la scienza medica cominciò a medicalizzare la follia. Neurologi e psichiatri come Emil Kraepelin classificarono per la prima volta disturbi come la schizofrenia e il disturbo bipolare, ma i trattamenti furono spesso drastici e brutali.
Negli anni ’30, il dottor Manfred Sakel sviluppò la terapia insulinica, che induceva comi ipoglicemici ripetuti. In parallelo, si diffuse l’uso dell’elettroshock, pratica introdotta da Ugo Cerletti e Lucio Bini a Roma, che provocava convulsioni controllate per riavviare il cervello.
Ma il capitolo più oscuro resta quello delle lobotomie, rese celebri dal neurochirurgo Egas Moniz. Questo intervento devastante comportava la recisione delle connessioni neuronali dei lobi frontali, lasciando spesso i pazienti privi di emozioni, apatetici e gravemente menomati.
Psicofarmaci e chiusura dei manicomi: la libertà illusoria
Solo negli anni ’50 e ’60, la scoperta dei primi psicofarmaci come la clorpromazina e il litio segnò una svolta terapeutica. Questi medicinali permisero la gestione dei sintomi psichiatrici e aprirono la strada alla deistituzionalizzazione. In Italia, la Legge Basaglia del 1978 sancì la chiusura definitiva dei manicomi, segnando una rivoluzione sociale.
Tuttavia, la transizione verso l’assistenza territoriale si rivelò spesso fallimentare. Servizi insufficienti, tagli ai fondi e mancanza di supporto continuativo hanno fatto sì che molti ex pazienti finissero abbandonati a se stessi, emarginati o reclusi nelle carceri.
La storia dei manicomi è quindi una storia di speranze disattese, dove le buone intenzioni hanno spesso ceduto il passo all’inefficienza, lasciando sulla pelle di migliaia di persone il segno indelebile della sofferenza.