Il terremoto verificatosi oggi in Tibet, precisamente alle ore 02:05 italiane, 80 chilometri a nord del Monte Everest, ha registrato una magnitudo pari a 7.0. Questo evento, secondo il presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Carlo Doglioni, ha caratteristiche simili a quelle che contraddistinguono gran parte dei terremoti che si manifestano lungo la catena degli Appennini.
Doglioni ha spiegato che nella regione tibetana, teatro di questa attività sismica, si osserva un fenomeno provocato dalla collisione tra la placca tettonica indiana e quella eurasiatica. Questo processo, iniziato milioni di anni fa, ha portato alla formazione della maestosa catena dell’Himalaya, ma è tuttora fonte di una dinamica di tipo estensionale. Questo significa che i due blocchi tettonici tendono ad allontanarsi l’uno dall’altro, generando una faglia in dilatazione.
Faglia estensionale e i suoi effetti sismici
Come sottolineato da Doglioni, i terremoti che si verificano in queste zone sono il risultato di questa dilatazione della faglia. Eventi di questo tipo sono già noti per la loro intensità distruttiva, come nel caso del sisma del 2008, che provocò oltre 70.000 vittime, o il devastante terremoto del Nepal del 2015, che raggiunse una magnitudo di 7.8 causando più di 8.000 vittime. Tuttavia, mentre quest’ultimo fu il risultato di un diverso meccanismo tettonico – quello compressivo, dove le placche si spingono l’una contro l’altra – l’evento odierno in Tibet segue invece il modello tipico delle faglie estensionali.
Il presidente dell’Ingv ha evidenziato come questa dinamica sia strettamente correlata a un limite massimo teorico di magnitudo, che per questi sistemi si aggira intorno a 7.5. “Con una magnitudo di 7.0, il sisma di oggi si colloca vicino al valore massimo possibile per fenomeni di questo genere, caratterizzati dall’allontanamento dei blocchi della faglia”, ha dichiarato Doglioni.
La rilevazione sismica: precisione e affidabilità
Il terremoto è stato registrato dai sensori della sala sismica dell’Ingv di Roma, situata a una distanza tale da consentire il filtraggio dei dati locali di disturbo. Questo dettaglio, secondo Doglioni, garantisce una maggiore affidabilità delle misurazioni rispetto a quelle effettuate in loco. La precisione e la profondità delle analisi permettono di comprendere meglio le caratteristiche del fenomeno sismico e il suo impatto sull’area circostante.
La zona colpita, situata nelle vicinanze del Monte Everest, si trova in una delle regioni geologicamente più attive del pianeta. L’intera area è un laboratorio naturale per gli esperti di geofisica, poiché qui le forze tettoniche lavorano incessantemente, modellando il paesaggio e provocando eventi sismici di grande intensità.
L’analogia con i terremoti appenninici
L’interessante parallelo tracciato da Carlo Doglioni con gli Appennini risiede nel meccanismo estensionale comune a entrambe le aree. In Italia, gran parte dell’attività sismica è legata alla dilatazione delle faglie presenti lungo l’asse appenninico. Questa similitudine aiuta a comprendere meglio il funzionamento delle faglie tettoniche e il loro impatto sulle popolazioni locali. Tuttavia, mentre i terremoti appenninici raramente superano magnitudo 6.5, gli eventi sismici tibetani possono raggiungere valori sensibilmente più alti, rendendoli ancora più pericolosi.
L’evento di oggi è l’ennesima dimostrazione della complessità del sistema tettonico dell’Himalaya e del suo continuo movimento. I ricercatori continueranno a monitorare la zona, consapevoli che, sebbene sia impossibile prevedere con certezza un terremoto, una maggiore conoscenza dei meccanismi alla base di questi eventi può contribuire a mitigare i danni e a salvare vite umane.