Nell’ultimo periodo c’è stato un rinnovato interesse per Venere. Questo non solo perché risulta semplicemente un “gemello uscito male” della Terra, ma anzi pare possa offrire delle possibilità di vita nella sua atmosfera. Sebbene la vita su questo pianeta risulti particolare, alcuni studi dicono che teoricamente ci possa essere almeno una possibilità.
Lo studio è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science, parte da storici tentativi di rilevazione di ammoniaca da parte delle sonde Venera 8 (Unione Sovietica) e Pioneer Venus (USA). Tuttavia, l’ammoniaca non dovrebbe essere presente su Venere. Manca quindi un passaggio, ovvero bisogna capire quale sia il processo che la sta producendo.
La teoria che il gruppo di ricercatori ha proposto è piuttosto audace. Si sono infatti posti come fonte della sua produzione le nuvole di Venere. Se così fosse, l’ambiente ricco di acido solforico potrebbe essere concretamente modificato per renderlo un ambiente più vivibile. L’ammoniaca sarebbe in grado di neutralizzare l’acido solforico, andando quindi a comportare una serie di reazioni chimiche a catena che in parte spiegherebbero le anomalie finora riscontrate nell’atmosfera di Venere.
Sara Sieger del MIT afferma che nessuna forma di vita riuscirebbe a sopravvivere nelle gocce di Venere, ma che forse c’è della vita che sta cercando di modificare il proprio ambiente per renderlo vivibile. Teorie molto forti, che richiedono delle prove altrettanto forti per sostenerle.
Gli scienziati hanno già individuato cosa poter andare a cercare nelle future esplorazioni. Innanzitutto, certificare la presenza di ammoniaca e di ossigeno, fino ad arrivare all’evidenza che l’anidride solforosa viene neutralizzata dai sali di ammonio, quindi arrivare a scoprire l’eventuale presenza di sostanze organiche.
Innanzitutto, bisogna vedere in successive missioni se sono ancora presenti ossigeno e ammoniaca nelle nubi. Quindi che il solfato e l’ammonio siano presenti nelle goccioline più grandi presenti nella parte inferiore delle nubi. Parole di Paul Rimmer queste, dell’Università di Cambridge.