La navigazione ambientale: un’arte antica
L’uomo ha sempre avuto un legame profondo con l’ambiente circostante, un rapporto che si è manifestato anche nella capacità di orientarsi e trovare la strada in assenza di strumenti tecnologici. Prima dell’avvento di Google Maps e dei sistemi di navigazione satellitare, le popolazioni indigene e gli antichi navigatori si affidavano a segnali naturali per attraversare distanze enormi. I marinai delle Isole Marshall, ad esempio, utilizzavano i modelli delle onde per orientarsi nell’Oceano Pacifico, mentre le comunità indigene Gwich’in in Alaska seguivano le stelle per attraversare lo Yukon. In Malesia, il popolo Batek superava l’ostacolo della fitta foresta pluviale imparando a orientarsi attraverso il canto degli uccelli.
Uno studio rivela l’arte della navigazione
Un recente studio ha messo in luce l’arte e la scienza della navigazione in paesaggi complessi, una competenza che poteva significare la differenza tra la vita e la morte per gli antichi popoli che attraversavano terreni potenzialmente pericolosi. La ricerca ha esaminato le tecniche di navigazione di 30 nazioni in tutto il mondo, creando la prima mappa globale del suo genere, che mostra come i problemi unici affrontati dagli esseri umani abbiano dato origine a una varietà di approcci alla navigazione.
“Il nostro studio descrive metodi di orientamento così abili che sembrano incredibili per molti di noi che dipendono dal GPS per trovare la strada quasi ovunque”, ha affermato l’autore principale dello studio, il Dr. Fernandez Velasco. “Abbiamo trovato prove consistenti di come la diversità dei paesaggi in cui gli umani vivono si rifletta nella diversità delle culture navigazionali. La ricerca attuale sulla navigazione nelle scienze cognitive non riflette questa diversità. La ricerca futura può non solo aiutarci a comprendere più profondamente il comportamento umano, ma può anche aiutarci a comprendere, preservare, rivitalizzare e adattare culture di navigazione incredibilmente ricche che svolgono un ruolo importante nel connettere le persone ai loro ambienti locali.”
Metodi di navigazione tradizionali
Uno dei metodi di navigazione tradizionali più affascinanti ma meno compresi è quello delle Te Lapa Lights, un misterioso bagliore oceanico che potrebbe aver guidato gli antichi navigatori polinesiani. Le abilità navigazionali umane hanno infine portato all’arte e alla scienza della creazione di mappe, nota come cartografia. Ma vi siete mai chiesti come gli antichi popoli realizzassero mappe prima dell’invenzione del viaggio aereo e dei satelliti?
La cartografia prima dei satelliti
La creazione di mappe era il risultato di generazioni successive di viaggiatori, esploratori, geografi, cartografi, matematici, storici e altri studiosi che mettevano insieme frammenti disparati di informazioni. Questi primi prodotti si basavano su alcune misurazioni realistiche, ma anche su molte speculazioni, che ci hanno portato alla teoria della Terra piatta.
L’avvento dei satelliti ci ha permesso di conoscere la forma della nostra pianeta e di trovare la strada praticamente ovunque. Tuttavia, anche tra le società che hanno a lungo trascurato il loro rapporto con la natura, gli esseri umani si affidano ancora a metodi tradizionali di orientamento.
I cairn: segnali di pietra
La parola “cairn” deriva dal gaelico scozzese e significa “mucchio di pietre”. Questi segnali sono costruiti per mostrare ai camminatori la strada su percorsi particolarmente confusi, come il famoso Camino de Santiago. Per questo motivo, il Servizio dei Parchi Nazionali degli Stati Uniti ha chiesto alle persone di non costruire cairn solo per divertimento, poiché possono indurre in errore i camminatori. Dopo tutto, la pratica di costruire cairn va contro un principio fondamentale del trovarsi nella natura: non lasciare traccia.
Waymarkers estremi: l’Everest
In uno degli ambienti più estremi della Terra, gli esseri umani hanno persino utilizzato i morti come segnali di orientamento. Morire sulla cima dell’Everest significa probabilmente rimanere lì per sempre, motivo per cui la Rainbow Valley è diventata il luogo di riposo preferito per coloro che non sopravvivono alla scalata verso il tetto del mondo.
Lo studio è stato pubblicato su Trends in Cognitive Sciences.