L’idea che i batteri intestinali possano influenzare il desiderio di zuccheri sta guadagnando attenzione, soprattutto grazie alle affermazioni di alcune aziende che vendono probiotici. Tuttavia, a oggi, le uniche prove disponibili provengono da studi su topi da laboratorio.
Il legame tra microbiota e voglia di dolci: cosa dicono gli studi sui roditori
Gli scienziati hanno scoperto che la composizione del microbiota intestinale può incidere sulle preferenze alimentari nei topi. Alcuni studi hanno evidenziato che la mancanza di specifici batteri – tra cui Lactobacillus salivarius, L. gasseri, L. johnsonii e Muribaculaceae – porta i roditori a cercare con maggiore insistenza alimenti ricchi di zuccheri e grassi.
Secondo il microbiologo Sarkis Mazmanian del Caltech, l’assenza di questi batteri spinge i topi a consumare quantità maggiori di cibi piacevoli al palato, siano essi dolci o grassi. Reintrodurre i microbi mancanti nell’intestino dei topi ha mostrato un effetto opposto, riducendo le abbuffate.
Uno studio pubblicato su Nature Microbiology ha individuato un altro possibile attore in questo processo: il batterio intestinale Bacteroides vulgatus e la vitamina B5 (pantotenato) da esso prodotta. Nei topi geneticamente modificati per non avere il recettore FFAR4, il calo di B. vulgatus e della vitamina B5 ha portato a un aumento del consumo di zucchero. Ripristinando questi elementi, i ricercatori hanno osservato una riduzione della voglia di dolci.
Il ruolo della vitamina B5 e del GLP-1 nella regolazione dell’appetito
I risultati suggeriscono che il pantotenato possa stimolare la produzione della proteina GLP-1, già nota per il suo ruolo nella regolazione della glicemia e del senso di sazietà. Alcuni farmaci per il diabete e la perdita di peso, come il semaglutide (Ozempic), agiscono proprio imitandone gli effetti.
Il GLP-1, a sua volta, stimola la sintesi di FGF21, una proteina che influisce su meccanismi ancora poco chiari nell’ipotalamo, una regione del cervello che regola la fame. Il risultato? Una minore attrazione per gli zuccheri nei topi da laboratorio.
Funzionerà anche negli esseri umani?
Qui sta il problema: nessuno ha ancora testato questi effetti sulle persone. I risultati sugli animali sono interessanti, ma non è detto che si possano tradurre negli esseri umani, il cui microbiota, metabolismo e genetica sono ben più complessi.
Secondo Mazmanian, anche se si scoprisse un effetto simile nell’uomo, il microbioma varia enormemente da individuo a individuo, rendendo difficile prevedere chi potrebbe trarne beneficio.
Un’altra preoccupazione riguarda i possibili effetti collaterali. Bacteroides vulgatus, per esempio, in alcuni ratti con predisposizioni genetiche ha scatenato infiammazione intestinale. Sebbene la maggior parte delle persone non condivida le stesse mutazioni dei roditori, un’eccessiva proliferazione di questo batterio potrebbe avere ripercussioni negative sulla salute digestiva di alcuni individui.
Probiotici e regolamentazione: marketing o scienza?
A complicare la situazione c’è il fatto che i probiotici venduti sul mercato non sono sottoposti agli stessi rigorosi test dei farmaci. Negli Stati Uniti, la FDA (Food and Drug Administration) non richiede studi clinici per questi prodotti, a patto che le aziende non affermino esplicitamente di trattare malattie.
Secondo Pieter Cohen, esperto della Harvard Medical School, i produttori possono commercializzare i loro probiotici con affermazioni basate su studi animali, senza che vi siano prove concrete sugli esseri umani.
Anche Mazmanian, pur studiando i batteri benefici, rimane scettico: nel 2025, non esistono ancora evidenze scientifiche solide a sostegno dell’idea che i probiotici commerciali possano realmente ridurre il desiderio di zucchero. Inoltre, la maggior parte dei prodotti in commercio non contiene nemmeno i batteri che negli esperimenti hanno mostrato effetti nei topi.
Insomma, per ora la promessa di probiotici capaci di ridurre la voglia di dolci rimane più una trovata di marketing che una realtà scientifica.