Hawaii, arcipelago incastonato nell’azzurro dell’Oceano Pacifico, evocano immagini di acque cristalline, lussureggianti foreste pluviali e arenili dorati, simbolo di un paradiso terrestre. Tuttavia, dietro questa bellezza si cela un invasore silenzioso: l’inquinamento da plastica, che minaccia il fragile equilibrio dell’ecosistema marino. Un recente studio condotto dall’Università delle Hawaii (UH) di Mānoa ha portato alla luce una scoperta inattesa e promettente. Un particolare fungo marino, rinvenuto lungo le coste delle Hawaii, mostrerebbe la straordinaria capacità di degradare la plastica, prospettando un potenziale strumento naturale per contrastare la crescente emergenza ambientale che affligge non solo l’arcipelago hawaiano, ma gli oceani di tutto il pianeta.
Ricerca sui funghi marini: il team dell’Università delle Hawaii e l’ambizioso studio sulla plastica
Sulle sponde delle Hawaii, la lotta contro l’inquinamento plastico assume nuovi contorni grazie agli sforzi di un gruppo di studiosi guidati da Ronja Steinbach, studentessa di biologia marina presso il College of Natural Sciences dell’UH Mānoa, e dal professor Anthony Amend, membro del Pacific Biosciences Research Center. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Mycologia, ha rivelato che meno dell’1% delle specie di funghi marini è stato finora identificato e studiato. Eppure, proprio in questo mondo sommerso e sconosciuto, si celerebbe una soluzione ecologica contro la plastica.
I funghi marini, raccolti da coralli, alghe, sabbie e spugne lungo le coste delle Hawaii, sono stati analizzati per verificare la loro capacità di nutrirsi di plastica, nello specifico poliuretano, una delle plastiche più diffuse e resistenti. Secondo quanto dichiarato da Steinbach, la plastica rappresenta un materiale estremamente longevo, difficile da eliminare con le tecnologie attuali, e spesso finisce per frammentarsi in microplastiche che contaminano l’acqua e penetrano nella catena alimentare.
Il superpotere dei funghi: digestione della plastica e adattamento rapido
I funghi marini possiedono una caratteristica straordinaria: la capacità di scomporre materiali complessi come legno e chitina, composti che molti altri organismi non riescono a digerire. Proprio questa peculiarità ha spinto i ricercatori a testare la loro reazione a contatto con il poliuretano. I risultati sono stati sorprendenti: oltre il 60% delle colonie di funghi prelevati dall’oceano ha mostrato di essere in grado di degradare la plastica, trasformandola in biomassa fungina.
Secondo Steinbach, i risultati più incredibili si sono registrati quando i funghi sono stati sottoposti a un processo di adattamento sperimentale. Dopo soli tre mesi, alcuni ceppi hanno aumentato la velocità di degradazione della plastica del 15%, dimostrando un’inaspettata capacità evolutiva in tempi estremamente ridotti. “È stato emozionante osservare quanto velocemente questi organismi abbiano risposto all’esposizione alla plastica,” ha sottolineato Steinbach.
Plastica negli oceani: il nemico invisibile delle Hawaii e del Pianeta
L’arcipelago delle Hawaii non è solo uno scrigno di biodiversità, ma anche uno dei luoghi più colpiti dal trasporto oceanico di rifiuti plastici. Le correnti marine accumulano enormi quantità di detriti sulle coste, tra cui bottiglie, reti da pesca e frammenti di microplastiche, che finiscono per essere ingeriti da tartarughe marine, uccelli, pesci e mammiferi acquatici come i delfini. Il fenomeno delle microplastiche, frammenti di pochi millimetri, costituisce oggi una minaccia invisibile ma letale, non solo per la fauna marina, ma anche per la salute umana, poiché contaminano acqua potabile e cibi di origine marina.
La plastica non si limita a essere un rifiuto ingombrante, ma rilascia sostanze tossiche quando sottoposta a raggi solari o pressioni meccaniche, come le onde. Composti nocivi come ftalati e bisfenolo A, associati a disturbi ormonali e rischi cancerogeni, vengono rilasciati nell’ecosistema acquatico, penetrando negli organismi viventi e accumulandosi lungo l’intera catena alimentare.
Evoluzioni future: dal poliuretano al polietilene e PET, la ricerca continua
Gli scienziati dell’Università delle Hawaii non si fermano ai primi successi. Il gruppo di ricerca sta ampliando i test per verificare se questi funghi marini possano attaccare anche altre tipologie di plastiche, come il polietilene (utilizzato per sacchetti e imballaggi) e il PET (impiegato per bottiglie e contenitori alimentari). Parallelamente, gli studiosi stanno indagando i processi molecolari attraverso i quali i funghi scompongono la plastica, con l’obiettivo di comprendere i meccanismi enzimatici responsabili della degradazione del materiale sintetico.
L’ambizione è quella di coinvolgere esperti in ingegneria ambientale, chimica e oceanografia, affinché la scoperta possa tradursi in tecnologie applicabili per la bonifica delle spiagge e la depurazione degli ecosistemi marini. Steinbach ha dichiarato che l’Università delle Hawaii mira a collaborare con specialisti di diversi settori per sviluppare soluzioni pratiche, capaci di rimuovere la plastica dai litorali e ridurre l’inquinamento marino su scala globale.
La sfida della plastica: un’eredità secolare
La diffusione della plastica ha rivoluzionato il mercato globale per economicità e versatilità, ma il costo ambientale di questo materiale sta emergendo con crescente drammaticità. Oggetti di uso quotidiano, come sacchetti, bottiglie e imballaggi, persistono per secoli negli oceani, causando danni irreversibili agli ecosistemi acquatici.
Nell’Oceano Pacifico, l’isola di plastica conosciuta come Great Pacific Garbage Patch si estende per una superficie di oltre 1,6 milioni di chilometri quadrati, un’area più ampia della Penisola Iberica, e continua ad accumulare rifiuti provenienti da ogni angolo del pianeta. Le Hawaii, situate lungo la traiettoria di queste correnti oceaniche, si trovano in prima linea in questa emergenza ambientale.
L’individuazione di funghi marini capaci di smaltire la plastica potrebbe rappresentare una svolta ecologica, aprendo la strada a nuove strategie biologiche per ripulire mari e spiagge, a partire proprio dalle coste delle Hawaii, divenute, loro malgrado, emblema mondiale dell’inquinamento da plastica.